Foxy Brown

Titolo originale: Foxy Brown
Regia: Jack Hill
Sceneggiatura: Jack Hill
Fotografia: Brick Marquard
Montaggio: Chuck McClelland
Scenografia: Kirk Axtell
Suono: John Dignan
Musiche: Willie Hutch
Interpreti: Pam Grier, Antonio Fargas, Peter Brown, Terry Carter, Kathryn Loder, Harry Holcombe, Sid Haig, Juanita Brown, Sally Ann Stroud, Bob Minor, Tony Giorgio, Fred Lerner, Judith Cassmore, H.B. Haggerty, Boyd ‘Red’ Morgan, Jack Bernardi, Robert Nadder, Brenda Venus, Kimberly Hyde, Jon Cedar, Ed Knight, Esther Sutherland
Produzione: Buzz Feitshans per American International Pictures (AIP)
Durata: 94 minuti
Prima proiezione: 5 aprile 1974

Sinossi:
Foxy Brown è un’afroamericana fidanzata con un agente infiltrato che, in seguito a un’azione, viene ferito e spacciato per morto. In realtà l’uomo è stato portato in ospedale da dove esce con un nuovo volto grazie a una plastica facciale. Purtroppo neppure questo lo salva da chi gli stava dando la caccia, una banda (bianca) di trafficanti di droga che gestisce un giro di prostitute e che riesce in fretta a farlo fuori. Il fratello di Foxy, Link, conosce la gang che le ha ucciso l’uomo. Contro la quale la donna metterà in moto una strategica vendetta…

Il 1973 è l’anno in cui le donne si affacciano sugli schermi della blaxpoitation, ossia la vasta produzione di film con protagonisti afroamericani (diretti spesso ma non sempre da registi di colore) nata all’inizio degli anni Settanta sulla scia delle proteste per i diritti civili, destinata prevalentemente proprio agli afroamericani ma che in breve conquistò un pubblico più vasto. Inizialmente al centro della scena ci sono gli uomini, come nel grandissimo successo Sweet Sweetback’s Baadasssss Song (1971) di Melvin Van Peebles – costato un centinaio di migliaia di dollari, ne incassò oltre 15 milioni – o Shaft (1971) di Gordon Parks, che ugualmente andò benissimo al botteghino. Consolidato il modello produttivo (che attrasse in fretta l’attenzione anche delle Major), nel 1973 arrivano sulla scena le donne nere con Cleopatra Jones: licenza di uccidere interpretato da Tamara Dobson e Coffy interpretato da Pam Grier. In entrambi i casi, vessazioni, spaccio, degradazioni varie e vendetta dominano il racconto. Tutti elementi che ritroviamo anche in Foxy Brown, realizzato nel 1974 ma probabilmente il titolo oggi più noto dell’intero filone grazie a Quentin Tarantino che, in Jackie Brown (1997), cita chiaramente il film di Jack Hill nel cognome della sua magnifica protagonista, Pam Grier appunto, ovvero l’attrice più iconica della balxpoitation e l’interprete di Foxy Brown. Per la Grier questi film raccontavano l’empowerment femminile e la scoperta di ruoli volitivi e indipendenti per le donne, in particolare quelle afroamericane che lottavano in contesti difficili in cui stupro, tossicodipendenze, prostituzione non erano fatti alieni. Foxy Brown resta però un’icona supersexy e senza dubbio la sua rappresentazione risente di un’oggettivazione operata da un punto di vista maschile, cosa che rende il film distante dalla nostra sensibilità se preso come esempio di empowerment (in realtà le critiche su questo versante si sprecarono già all’epoca). Eppure è interessante che siano lei e la sua antagonista Katherine (Kathryn Loder), una donna bianca, le figure più forti e decisamente dominanti di un film in cui Foxy tira in ballo persino le Pantere Nere per ottenere giustizia e dimostrare che la comunità nera non abbassa la testa di fronte ai soprusi. Stroncato dalla critica, Foxy Brown è l’esempio di una tipologia di eroina che trovò spazio in questo periodo, oltre a essere un film veramente godibilissimo per la miscela di generi che riesce a creare. Nel giro di qualche anno la blaxpoitation tramontò, accusata da alcuni di razzismo e difesa da altri perché aveva comunque contribuito a portare sullo schermo, da protagonista, la comunità afrodiscendente.

Una squillo per l’ispettore Klute

Titolo originale: Klute
Regia: Alan J. Pakula
Sceneggiatura: Andy Lewis, Dave Lewis
Fotografia: Gordon Willis
Montaggio: Carl Lerner
Scenografia: George Jenkins
Suono: Chris Newman
Musiche: Michael Small
Interpreti: Jane Fonda, Donald Sutherland, Charles Cioffi, Roy Scheider, Dorothy Tristan, Rita Gam, Nathan George, Vivian Nathan, Morris Strassberg, Barry Snider, Betty Murray, Jane White, Shirley Stoler, Robert Milli, Anthony Holland, Fred Burrell, Richard B. Shull, Mary Louise Wilson, Marc Malvin, Rosalind Cash, Jean Stapleton, Jan Fielding, Sylvester Stallone
Produzione: Alan J. Pakula per Gus Productions
Durata: 114 minuti
Prima proiezione: 23 giugno 1971

Sinossi:
Il detective John Klute va a New York per indagare sulla scomparsa del dirigente di una grande azienda: sua unica traccia è un messaggio indirizzato a una prostituta d’alto bordo, Bree Daniels. Klute affitta un appartamento vicino a quello della donna e la spia: lei all’apparenza è un’emancipata femmina che esercita liberamente la propria sessualità a pagamento, ma le sue sedute dal terapeuta mostrano un coacervo di contraddizioni e conflitti. Durante l’indagine portata avanti dall’ispettore, i due si incontrano, scontrano e iniziano una relazione…

Noir metropolitano considerato il primo film di un’ideale “trilogia della paranoia” firmata da Alan J. Pakula (gli altri due sono Perché un assassinio e il celeberrimo Tutti gli uomini del presidente), il film che fruttò il primo Oscar a Jane Fonda in originale si intitola semplicemente Klute, il nome del detective interpretato da Donald Sutherland. Sebbene il nostro sappia il fatto suo, al centro della scena c’è però senza dubbio Bree Daniels, prostituta dalla grande ambivalenza psicologica ed emotiva, femme fatale passata al rango di soggetto attivo, capace di leggere gli uomini e carpirne perversioni e desideri in un potenziamento del femminile che tormenta perché difficile da maneggiare. Difficile in primo luogo per la stessa Bree, inquieta e in mezzo a un guado, ma che conduce le “danze” del mistery che si risolve ben prima del finale riservando alla suspense e alle relazioni tra i due protagonisti la vera attenzione. Klute – e noi con lui – è spettatore di un ritratto femminile pieno di volontà, incubi, paure. La paura di un’angoscia esistenziale, di un vuoto e di uno smarrimento unita a quella del restare imprigionata in un rapporto uomo/donna convenzionale. Bree vorrebbe fare la modella, ma fa la prostituta in un mondo di maniaci e manie dentro a un sottobosco cittadino in cui ha trovato una “tana”. Klute la guarda, la assiste e la protegge, forse senza capirla fino in fondo ma dandosi il tono del salvatore, probabilmente momentaneo. L’erotismo di Jane Fonda non è giocoso come in Barbarella ma politico, orientato alla messa in discussione delle dinamiche di genere così come del noir da una prospettiva femminile visto che il suo personaggio può mettere in crisi il maschile riuscendo persino a decifrare indicibili realtà politico/economiche. Per farlo deve ancora collocarsi in un campo seduttivo accettato dall’uomo, ma è lei il mezzo attraverso cui il caso può essere risolto. In questa rilettura del noir classico, Pakula decentra il proprio interesse da colui che dovrebbe essere il protagonista (il detective) riservando il proprio sguardo a una donna che si dimena come una leonessa in cerca di un posto e di una funzione che non siano decisi da altri. Tradotto in italiano con Una squillo per l’ispettore Klute, all’uscita in sala nel 1971 venne contestato dalle femministe americane, che videro nell’oggettivazione della donna/prostituta un’ulteriore rassicurazione per la società maschilista. A ben vedere, sia se letto nella prospettiva dei generi classici sia seguendo la vitalità ansiosa della sua protagonista, il film rimarca piuttosto il bisogno di una ricerca, di un percorso lontano dall’essere portato a termine ma in corso di svolgimento, fatto da una donna per se stessa.

Mannequin – Frammenti di una donna

Titolo originale: Puzzle of a Downfall Child
Regia: Jerry Schatzberg
Sceneggiatura: Adrian Joyce (Carol Eastman)
Fotografia: Adam Holender
Montaggio: Evan Lottman
Scenografia: Richard Bianchi
Suono: Sanford Rackow
Musiche: Michael Small
Interpreti: Faye Dunaway, Barry Primus, Viveca Lindfors, Barry Morse, Roy Scheider, Ruth Jackson, John Heffernan, Sydney Walker, Clark Burckhalter, Shirley Rich, Emerick Bronson, Joe George, John Eames, Harry Lee, Jane Halleran, Susan Willis, Barbara Carrera, Sam Schacht
Produzione: John Foreman per Newman-Foreman Company, Jerrold Schatzberg Productions
Durata: 104 minuti
Prima proiezione: 16 dicembre 1970

Sinossi:
Lou Andreas è una donna bellissima e a lungo ha lavorato come la modella. Quando la conosciamo, però, si è ritirata dalle passerelle, reduce da un esaurimento nervoso e dalla fine di una relazione, e si è rifugiata a vivere in un cottage in riva al mare. Qui la va a trovare Aaron, fotografo e amico, testimone di alcuni momenti della scintillante carriera di Lou: l’uomo vuole intervistarla per realizzare forse un film su di lei e sulle verità nascoste dietro il successo nella moda. Lou comincia così un racconto doloroso e sconnesso…

L’esordio alla regia di Jerry Schatzberg, ai tempi importante fotografo (sua la foto di copertina di Blonde on Blonde di Bob Dylan) e reduce da una relazione con la protagonista del film, Faye Dunaway, che del resto aveva immortalato in vari scatti: uno di questi venne usato nel 2011 come manifesto del 64° Festival di Cannes quando Mannequin – Frammenti di una donna fu proiettato nella versione restaurata. E riscoperto, visto che questo prezioso lavoro del regista newyorchese, uno dei nomi centrali del cinema americano degli anni Settanta, non ha trovato lo spazio che merita nella memoria collettiva e cinefila. Schatzberg parte da qualcosa che conosceva bene, il mondo di lustrini frequentato per conto di Vogue e altre riviste femminili, scrivendo assieme alla sceneggiatrice de La sparatoria di Monte Hellman e Cinque pezzi facili di Rafelson, Carole Eastman (che si firmava virilmente Adrien Joyce), il ritratto frammentato di una modella. Con grande intelligenza Schatzberg sceglie una narrazione scomposta in istantanee e un’atmosfera onirica, due elementi che rendono impossibile la comprensione piena di una figura femminile ancora poco indagata dal cinema, quella della modella o della fotomodella appunto, donna splendida e sorta di divinità contemporanea ma non per questo padrona del proprio destino. Mannequin è un film del 1970 come Wanda di Barbara Loden: le sue protagoniste non potrebbero apparire più distanti, e certamente lo sono anche, ma hanno parecchi punti di contatto. Entrambe mancano di un’individualizzazione che prescinda dagli uomini e sbandano facendosi male. Soprattutto però entrambi i titoli testimoniano la presenza di un vuoto di senso più che una nuova affermazione della femminilità. Per Lou Andreas (un nome che ricalca quello di Lou von Salomé da sposata) la seduzione è un artificio in cui restare invischiati e smarrirsi, uno strumento che occorreva usare con maggior consapevolezza per mantenere memoria e identità. Se, forse, l’analisi psicologica della fragile protagonista/bambina può risentire dei 50 anni che ci separano dal film, non vanno sottostimate l’importanza del titolo sia per tante narrazioni che ruotano attorno alla psiche femminile sia per la traiettoria che porta la donna da oggetto a soggetto proprio in quegli anni e nell’universo della moda messo in scena in Mannequin. A tal fine si può citare la parabola che vede proprio Faye Dunaway passare dietro l’obiettivo della macchina fotografica, visto che l’attrice nel 1978 sarà la protagonista de Gli occhi di Laura Mars di Irvin Kershner: da modella perduta a fotografa dotata di visioni extrasensoriali che le permettono di prevedere delitti. E riconoscersi come persona.

Wanda

Titolo originale: Wanda
Regia: Barbara Loden
Sceneggiatura: Barbara Loden
Fotografia: Nicholas T. Proferes
Montaggio: Nicholas T. Proferes
Suono: Lars Hedman
Interpreti: Barbara Loden, Michael Higgins, Dorothy Shupenes, Peter Shupenes, Jerome Thier, Marian Thier, Anthony Rotell, M.L. Kennedy, Gerald Grippo, Milton Gittleman, Lila Gittleman, Arnold Kanig, Joe Dennis, Charles Dosinan, Jack Ford, Rozamond Peck, Susan Clark, Linda Clark, Bill Longworth, Frank Jourdano, Valerie Mamches, Pete Richman, Ed Somavitch, Nicholas T. Proferes
Produzione: Harry Shuster per Foundation for Filmakers
Durata: 103 minuti
Prima proiezione: 21 agosto 1970

Sinossi:
Una casalinga infelice, Wanda, divorzia dal marito ma nella Pennsylvania rurale in cui vive non ha grandi prospettive, superati i 30 anni e priva ormai dell’unica struttura che le dava un’identità sociale. Sola e dopo aver rinunciato persino ai figli, la donna non ha in effetti alcuna meta e si perde tra cinema e bar, venendo derubata o conoscendo nuovi uomini. Tra questi c’è Norman, piccolo rapinatore cui Wanda si attacca morbosamente: lui la tiranneggia come un manipolatore violento ma la fa anche sentire speciale in quanto sua“complice” per un colpo in banca…

Uno straordinario pezzo unico, capace di rivelare un talento cristallino e raccontare la condizione femminile da una prospettiva genuinamente femminile: Wanda è infatti il solo titolo diretto dall’attrice Barbara Loden che ne è anche eccellente interprete. Girato in 16mm e a bassissimo budget, il film guarda al documentario e al cinema d’avanguardia tanto che la regista dichiarò di aver avuto in mente lo stile di Andy Warhol. Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1970, Wanda segue le disavventure di una donna che abbandona marito e figli per attraversare il proprio disagio interiore: l’emancipazione è lontana anni luce e l’essere solo donna un terreno inesplorato. Il risultato è un film che non teme di affrontare malesseri, contraddizioni, ambiguità, mettendo in evidenza le disparità di genere e i ruoli cristallizzati da cui nasce un’assenza di identità, una crisi del femminile: la Loden descrisse Wanda come una persona che ignora perché esiste e dunque passa da una cosa all’altra sottomettendosi in maniera mansueta quando trova un appiglio. Proprio come un animale. Non più madre e non più moglie, Wanda non sa cosa vuole e durante il film le sue scelte pulsionali la spogliano a poco a poco quasi del tutto di una cosciente autodeterminazione. Smentendo l’idea che la rivoluzione degli anni Sessanta abbia coinvolto realmente il sostrato più profondo del Paese e i rapporti tra i sessi, Wanda scandaglia paesaggi umani e fisici di un’America confusa, di una società che si dimena tra le convenzioni conservatrici e l’istintiva necessità di riconfigurare relazioni e percezioni. Ferino e brutale, Wanda si potrebbe vedere come la storia di una Bonnie Parker che non incontra un Clyde Barrow e che perciò non è destinata ad alcuna forma di eroismo. Ma Wanda sembra anche una Blanche DuBois cui non è destinato neppure il manicomio (la Loden era la moglie di Elia Kazan, regista della versione cinematografica di Un tram che si chiama desiderio) mentre va forse segnalato che l’attrice nel 1964 fu interprete a teatro di Maggie in quell’After the Fall che Arthur Miller scrisse traendo più che ispirazione dall’ex consorte, la defunta Marilyn Monroe. Ben lungi dall’affermare un’immagine della donna liberata, la Loden nel suo magnifico film muove scrittura e regia su di una direttrice disperata verso un cul de sac ricorsivo da cui ancora non può scaturire alcun riscatto (la critica Paulene Kael scrisse che Wanda era così squallido da far sembrare Émile Zola un autore di commedie). Unanimemente considerato una pietra miliare del cinema femminile e femminista, fin dalla sua uscita trovò un deciso plauso critico internazionale. Un film imperdibile.

Non torno a casa stasera

Titolo originale: The Rain People
Regia: Francis Ford Coppola
Sceneggiatura: Francis Ford Coppola
Fotografia: Bill Butler
Montaggio: Barry Malkin
Scenografia: Leon Ericksen
Suono: Nathan Boxer
Musiche: Ronald Stein
Interpreti: Shirley Knight, James Caan, Robert Duvall, Marya Zimmet, Tom Aldredge, Laurie Crews, Andrew Duncan, Margaret Fairchild, Sally Gracie, Alan Manson, Robert Modica, Eleanor Coppola
Produzione: Bart Patton, Ronald B. Colby per American Zoetrope
Durata: 101 minuti
Prima proiezione: 24 giugno 1969

Sinossi:
Natalie, una casalinga di Long Island, scopre di essere incinta. Confusa dalla sua nuova condizione, una mattina scappa di casa lasciando soltanto un biglietto al marito che ancora dorme. La giovane donna inizia così un viaggio senza meta lungo gli States per capire cosa vuole realmente e senza aver preso una decisione irrevocabile sul da farsi. Nel suo peregrinare, la ragazza incontra un ex giocatore di football con qualche ritardo mentale che si affezionerà a lei e di cui lei a sua volta si sentirà sempre più responsabile…

Non torno a casa stasera è il quinto lungometraggio di Coppola e l’ultimo del decennio degli anni Sessanta: il suo film successivo sarà Il Padrino con cui si aprirà la stagione che, più di ogni altra, ha consegnato il regista a un posto insostituibile nella storia del cinema. Non torno a casa stasera è un piccolo film in esterni e a basso costo che però Coppola desidera fortemente ed è anche un titolo ottimale per cogliere lo spirito di molti lavori della New Hollywood lontani dai grandi budget, scabri e incentrati su alienazioni individuali che trovano risonanza in quelle collettive. Uscito a neppure due mesi di distanza da Easy Rider, il film secondo il critico Roger Ebert ne era una sorta di immagine speculare: in entrambi i casi i protagonisti corrono sulle strade incrociando varia umanità e fuggendo da un’esistenza convenzionale. Non torno a casa stasera è infatti un road movie in cui il viaggio ha una valenza esistenziale e in cui il regista/sceneggiatore osserva lo sradicamento della sua protagonista, Natalie (una magnifica Shirley Knight), e i suoi incontri con personaggi marginali: la donna sta affrontando una crisi e per capire quale direzione prendere ha vitale bisogno di evadere dalle mura domestiche e perdersi. Un motivo decisamente ricorrente in quegli anni, ma in questo caso a salire sull’auto è appunto una donna, moglie di un uomo che il film non mostrerà mai compiutamente. Dai doveri coniugali allo spazio aperto, dalla propria casa alle camere dei motel, il percorso di Natalie è quello di una persona che non sa più vivere i ruoli che ha fin lì accettato, e che deflagra di fronte alla parte più irrevocabile di ogni altra ossia la maternità da poco scoperta. Sulla strada incontrerà esseri umani a vario titolo “traumatizzati” come un ex giocatore di football con problemi mentali (James Caan) e un ambiguo poliziotto (Robert Duvall), ma troverà soprattutto luoghi intrisi di spaesamento. Oltre a essere un esempio di stile “newhollywoodiano” e a ritrarre un personaggio femminile molto complesso, il lavoro risente di molto cinema europeo come se fosse un corrispettivo Usa di alcune opere di Antonioni con le sue donne incrinate e il loro disagio di fronte all’incomunicabilità o all’impressione di non essere comprese all’interno di rapporti che dovrebbero essere intimi. Il film in America non ebbe successo in sala né particolare riscontro critico, ma vinse nel 1969 il Festival di San Sebastian. Non torno a casa stasera è invece un lavoro forte e struggente sul valore della responsabilità individuale e sociale. E, guardando alla filmografia di Coppola, uno snodo nella definizione di alcune atmosfere rarefatte e stonate che ritroveremo pochi anni dopo ne La Conversazione (1974).

La prima volta di Jennifer

Titolo originale: Rachel, Rachel
Regia: Paul Newman
Sceneggiatura: Stewart Stern
Fotografia: Gayne Rescher
Montaggio: Dede Allen
Scenografia: Robert Gundlach
Suono: Jack Jacobsen
Musiche: Jerome Moross
Interpreti: Joanne Woodward, James Olson, Kate Harrington, Estelle Parsons, Donald Moffat, Terry Kiser, Frank Corsaro, Bernard Barrow, Geraldine Fitzgerald, Nell Potts, Shawn Campbell, Violet Dunn, Beatrice Pons, Dortha Duckworth, Simm Landres, Izzy Singer, Tod Engle, Connie Robinson, Sylvia Shipman, Larry Fredericks, Bruno Engler, Wendell P. MacNeal IV, Pete Bostrom
Produzione: Paul Newman per Kayos Productions
Durata: 110 minuti
Prima proiezione: 26 agosto 1968

Sinossi:
Rachel Cameron è stata una bambina solitaria, figlia di un becchino e di una donna priva di attenzioni. Sono passati gli anni, ma la situazione non è poi cambiata un granché: ora trentacinquenne Rachel è un’insegnante e vive ancora con la madre, nella casa sopra l’agenzia di pompe funebri che era appartenuta al padre. Donna solitaria e molto timida, Rachel affronta le vacanze estive con poco slancio e un gran senso di noia. La sua collega e amica Calla la convince però a partecipare a un incontro con un predicatore di passaggio…

Jennifer Cameron, incomprensibile invenzione tutta dell’edizione italiana visto e considerato che in originale il nome della protagonista è Rachel (e lo sottolinea perfino il titolo inglese), è cresciuta circondata da bare e in una bara si sente ancora a trentacinque anni di età. Una bara che si chiama società e che è altrettanto soffocante, asfittica, priva di vie di fuga o di scampo, all’apparenza. Jennifer è un personaggio centrale se si vuol prendere in esame l’evoluzione della messa in scena della donna nel cinema hollywoodiano in odor di rinnovamento, anticipando quel desiderio di fuga e quel senso di oppressione supremo, quasi aprioristico, che sarà il minimo comun denominatore di molte sceneggiature. Sono sue sorelle – minori, almeno stando alla cronologia produttiva – anche alcune delle protagoniste della rassegna, dalla Wanda raccontata da Barbara Loden alla Natalie Ravenna di Non torno a casa stasera di Francis Ford Coppola: anime irrequiete, dominate da un giudizio preventivo che le vuole incasellate in un ordine già costituito e che non può – non deve – essere messo in discussione. È stato dimenticato piuttosto in fretta Rachel, Rachel, che in italiano si disperde in un anonimo La prima volta di Jennifer, come se si volesse spostare l’attenzione solo su uno degli aspetti della trama, vale a dire la perdita della verginità. Ma in realtà la “prima volta” di Paul Newman, che mai aveva diretto un lungometraggio e da lì alla fine della carriera ne porterà a termine altri quattro, è un’opera ben più centrale di quanto si possa pensare. Nella sua ricerca di un’asciuttezza formale che distenda il tempo, nei fatti raggelandolo, c’è già quello sguardo verso l’autorialità europea che sarà uno dei motivi dominanti della nuova onda a stelle e strisce; così come il racconto di una femminilità auto-castrata che preferisce fingersi morta che affrontare i turbinii della vita, anticipatore della messa a fuoco della teoria della liberazione del corpo e del costrutto mentale (e morale, e politico) della donna. Se non si serba più memoria di questo piccolo e prezioso gioiello è con ogni probabilità proprio per la sua esibita austerità, lontana da manicheismi e svolazzi estetizzanti. Un’opera che matura durante il proprio svolgimento, seguendo il destino di Jennifer, e il suo percorso di emancipazione tanto dal mondo maschile quanto dalla prammatica borghese. Newman affermò di essere riuscito a mettere insieme il denaro necessario per produrre il film – tratto da un romanzo di Margaret Laurence e sceneggiato da Stewart Stern, noto all’epoca per lo script di Gioventù bruciata grazie ai compensi per aver prestato il volto alla pubblicità del J&B. Ennesima dimostrazione di totale volontà d’indipendenza, indispensabile per condurre in porto un’operazione produttiva così singolare ed estrema. Insieme all’interpretazione sublime di Joanne Woodward, per la quale l’attrice ricevette una candidatura agli Oscar, battuta dall’ex-aequo tra Katharine Hepburn e Barbra Streisand, rispettivamente per Il leone d’inverno e Funny Girl.

Gang

Titolo originale: Thieves Like Us
Regia: Robert Altman
Sceneggiatura: Robert Altman, Joan Tewkesbury, Calder Willingham
Fotografia: Jean Boffety
Montaggio: Lou Lombardo
Scenografia: Marty Wunderlich
Suono: Don Matthews
Interpreti: Keith Carradine, Shelley Duvall, John Schuck, Bert Remsen, Louise Fletcher, Ann Latham, Tom Skerritt, Al Scott, John Roper, Mary Waits, Rodney Lee, William Watters, Joan Tewkesbury, Eleanor Matthews, Pam Warner, Suzanne Majure, Walter Cooper, Lloyd Jones, Matthew R. Altman, Sim Dulaney
Produzione: Robert Altman per George Litto Productions
Durata: 123 minuti
Prima proiezione: 11 febbraio 1974

Sinossi:
Mississippi, 1936. Nonostante sia molto giovane Bowie è già un ospite delle patrie galere, colpevole d’omicidio. Assieme ai suoi compagni di “catene”, T-Dub e Chicamaw, riesce però a evadere: con loro riprende immediatamente l’attività criminale, dandosi anima e corpo alle rapine. Il rifugio dei tre è la casa in cui vivono la cognata di T-Dub e le sue figlie, per la maggiore delle quali T-Dub prova un’attrazione morbosa. Quando viene ferito in un incidente d’auto, Bowie viene accudito dalla figlia di un benzinaio, Keechie, con la quale inizia una relazione…

Gangster Story di Arthur Penn ha la sua première nell’agosto del 1967. Neanche sette anni più tardi, nel febbraio del 1974, tutto sembra già volto inesorabilmente verso la sconfitta, la perdita dell’ideale, la disillusione. Il merito di questa nuova tinteggiatura nell’affresco della Grande Depressione va distribuito tra molti registi, dal John Milius di Dillinger al mirabile Terrence Malick de La rabbia giovane, ma nessuno con ogni probabilità riesce a teorizzarlo quanto Robert Altman. Gang, traduzione un po’ semplicistica dell’originale Thieves Like Us (che riprende il titolo del romanzo di Edward Anderson, morto nel 1969, già trasposto sullo schermo nel 1948 da Nicholas Ray ne La donna del bandito), procede in un’asettica, chirurgica e millimetrica dissezione del genere degli “innamorati criminali”, sovvertendo ogni regola e ribaltando continuamente, e con il consueto spirito beffardo e anarcoide di Altman, la prospettiva considerata consona. L’operazione condotta in porto dal regista di M.A.S.H. e Anche gli uccelli uccidono si muove in una triplice direzione. Le prime due riguardano la volontà di “smentire” il passato consolidato, sia quello letterario – il romanzo di Anderson – che cinematografico, vale a dire il gangster-movie classico à la Ray. Così, mentre l’accento ne La donna del bandito è messo sulla storia d’amore tra Bowie e Keechie alimentando l’idea dei giovani e maledetti la cui unione può scardinare le regole della società, in Gang l’aspetto romantico viene continuamente svilito. Non c’è adesione alla relazione tra i due, che per di più occupa solo una parte residuale dell’intero impianto scenico: Keechie (Shelley Duvall) dopotutto scampa al barbaro destino riservato a Bowie (Keith Carradine) solo per il suo desiderio insano di andare a comprare una bevanda. Ma è soprattutto nella dialettica interna alla produzione contemporanea che Altman decide di muoversi in una direzione del tutto personale: nonostante l’ambientazione storica, l’America della Grande Depressione resta fuori dalla porta, rievocata quasi esclusivamente da elementi esterni come i discorsi che il presidente Franklin Delano Roosevelt rivolge a un Paese che del resto Altman tende ad annientare con i paesaggi mortuari del Mississippi e i resti di una società rurale incapace di svilupparsi. Del genere sorto a nuova vita con il capolavoro di Penn, infine, non c’è pressoché nulla: né sparatorie né dinamiche di gruppo, e neanche fughe disperate o esaltanti. Come sberleffo finale Altman decide di chiudere Gang ricorrendo a sua volta al ralenti, ma l’enfasi che il gesto di montaggio regalava a Gangster Story si trasforma in un angosciante quadro congelato su una folla in ascesa verso il nulla e inconsapevole di esserlo.

La rabbia giovane

Titolo originale: Badlands
Regia: Terrence Malick
Sceneggiatura: Terrence Malick
Fotografia: Tak Fujimoto, Stevan Larner, Brian Probyn
Montaggio: Robert Estrin
Scenografia: Jack Fisk
Suono: Maury Harris
Musiche: George Tipton
Interpreti: Martin Sheen, Sissy Spacek, Warren Oates, Ramon Bieri, Alan Vint, Gary Littlejohn, John Carter, Bryan Montgomery, Gail Threlkeld, Charles Fitzpatrick, Howard Ragsdale, John Womack Jr., Dona Baldwin, Ben Bravo, Emilio Estevez, Terrence Malick, Charlie Sheen
Produzione: Terrence Malick per Jill Jakes Productions
Durata: 95 minuti
Prima proiezione: 13 ottobre 1973

Sinossi:
Lo spiantato venticinquenne Kit vorrebbe essere James Dean ma fa il netturbino a Fort Dupree in South Dakota. Un giorno incrocia Holly, quindicenne ingenua e lolitesca, e inizia a frequentarla nonostante il piccolo-borghese padre di lei sia contrario. Quando l’uomo si oppone apertamente alla loro relazione, Kit lo uccide e dà fuoco alla casa della ragazza. I due iniziano una fuga in macchina durante la quale Kit si macchierà di altri efferati omicidi per i quali verranno ricercati in tutto il Paese…

Giustamente considerato uno dei titoli imprescindibili della New Hollywood, l’incredibile esordio di Terrence Malick è il punto più concettuale della parabola gangsteristica tracciata in quegli anni dal cinema americano. “Perché lo hai fatto?” chiede a Kit (Martin Sheen) il giovane poliziotto che lo arresta; “Volevo essere un criminale” risponde il venticinquenne emulo di James Dean, vero ribelle senza causa. Ma in fondo è solo una frase che dà una parziale motivazione a gesta assurde, compiute per ragioni in realtà oscure e insondabili. Non esiste più alcuno psicologismo né più una società che possa spingere o indirettamente “giustificare” le scelte criminali di Kit: esistono solo gli atti visibili che identificano i personaggi e che, uniti, compongono una traiettoria fatale come se la morte fosse l’unica meta possibile. Essere un criminale per essere qualcosa, si potrebbe dire. Ispirarsi a James Dean per darsi un’identità, incarnare storie per esistere. Ma sarebbero in ogni caso rapporti di causa-effetto fin troppo confortevoli rispetto al perturbante obiettivo di morte che trasuda da La rabbia giovane, ispirato liberamente alla storia vera di Charles Starkweather (che finì sulla forca nel 1959) e della sua fidanzatina Caril Ann Fugate (che rimase in galera fino al 1976). Come nessuno prima e come pochissimi dopo, Malick toglie qualunque appiglio allo spettatore rispetto al proprio racconto di sangue, mostrando il nichilismo e il sereno malessere di due vite gettate nell’esistenza e quasi prive di autocoscienza. Il processo di spogliazione di valore di qualunque agente, interno o esterno, rende la violenza di La rabbia giovane secca, fredda, asciutta e naturale come i paesaggi del Colorado in cui il film venne prevalentemente girato. Arthur Penn, che Malick aveva conosciuto frequentando l’American Film Institute e di cui era diventato amico, è ringraziato nei titoli di coda. Ma se La rabbia giovane ha qualcosa da spartire con Gangster Story è nell’esserne complementare: da una parte Penn alle prese con due convinti fuorilegge diventati miti per i media e i tanti diseredati della Depressione, dall’altra Malick alle prese con due scappati di casa che solo attraverso un’eventuale mitizzazione mediatica e popolare possono dare un senso a qualcosa che non ne ha affatto, a un’esplosione di brutalità che non ha realmente nel conflitto tra uomo e società nessuna radice. Al fondo di ogni storia criminale, e ben oltre le ragioni plausibili che possiamo trovare, c’è lo sguardo annichilente del male che è nell’umano, dell’inquietudine che esonda. E il difficile desiderio della rappresentazione di sé, cui nessuno riesce mai a dare senso compiuto o permanente nella materia vivente di cui è fatto il mondo.

Dillinger

Titolo originale: Dillinger
Regia: John Milius
Sceneggiatura: John Milius
Fotografia: Jules Brenner
Montaggio: Fred R. Feitshans Jr.
Scenografia: Trevor Williams
Suono: Donald F. Johnson
Musiche: Barry De Vorzon
Interpreti: Warren Oates, Ben Johnson, Michelle Phillips, Cloris Leachman, Harry Dean Stanton, Geoffrey Lewis, John P. Ryan, Richard Dreyfuss, Steve Kanaly, John Martino, Roy Jenson, Read Morgan, Frank McRae, David Dorr, Roland Bob Harris, J. Edgar Hoover, Terry Leonard, Jerry Summers, Catherine Tambini
Produzione: Buzz Feitshans per American International Pictures (AIP), F.P. Productions
Durata: 103 minuti
Prima proiezione: 19 giugno 1973

Sinossi:
La vita e le imprese (da taluni considerate eroiche) di John Dillinger, con ogni probabilità il gangster più famoso nell’America colpita e stordita dalla Grande Depressione. Accompagnato da Homer Van Meter, Harry Pierpont e Charles Mackley, suoi fedeli sodali, Dillinger compie rapine a più non posso, sempre particolarmente orgoglioso delle proprie capacità criminali. La sua attività rientra tra gli interessi di Melvin Purvis, capo dell’ufficio FBI che lo ritiene tra i responsabili del cosiddetto Massacro di Kansas City…

John Dillinger è, tra tutti i criminali che si diedero da fare dopo il crollo di Wall Street, quello la cui leggenda è rimasta maggiormente intatta nell’immaginario collettivo: lo dimostra, in una qualche misura, anche l’adattamento sulla sua figura portato a termine da Michael Mann in Nemico pubblico, dove si rinnova l’idea del gangster gentiluomo che lo elesse a novello Robin Hood. Era inevitabile che, sull’onda lunga del successo di Arthur Penn dedicato alle gesta di Bonnie e Clyde, la Hollywood in pieno “rinascimento” decidesse di concentrare l’attenzione anche su di lui. Ed è altrettanto inevitabile, osservando lo scenario a posteriori, che a dirigere un film su Dillinger sia stato John Milius, il più romantico e idealista dei registi del periodo, quello meno incline alla rilettura cinica, sarcastica o entomologica – come invece sarà per Robert Altman con Gang o Terrence Malick con La rabbia giovane – del gangster-movie. Eppure Milius arrivò a lavorare sul set per una pura concatenazione di cause. Esordiente alla regia, il ventinovenne Milius si era però fatto un nome rispettabile per le sue sceneggiature: aveva infatti già venduto a Hollywood gli script che sarebbero diventati Corvo Rosso non avrai il mio scalpo di Sydney Pollack e L’uomo dai 7 capestri di John Huston. Insoddisfatto della resa finale di entrambi i film, Milius desiderava esordire alla regia. L’occasione gliela fornì l’AIP di Samuel Z. Arkoff (casa di produzione fondamentale per comprendere il periodo storico del cinema statunitense: tra i film che diede alla luce anche Bloody Mama di Roger Corman e Foxy Brown di Jack Hill), che lo pose di fronte a una scelta tra Blacula, Black Mama, White Mama e un non meglio precisato film di gangster. Così nacque Dillinger, fiammeggiante e cupissimo dramma umano – prima ancora che noir – in cui Milius mette in scena un antieroe che si muove all’interno di una società malsana, malata e in cui la violenza nasce spesso dalle stesse forze dell’ordine. Facendo delle ristrettezze di budget il suo punto fermo l’esordiente regista lavora immagini crude, realistiche, eppure ammantate da un candore quasi fordiano, con lo strepitoso Warren Oates che incarna Dillinger a metà tra i boss à la Cagney e i cowboy di John Wayne. Ne viene fuori un’opera continuamente dialettica, come ben sintetizza il post-scriptum di J. Edgar Hoover alla fine dei titoli di coda: “Dillinger era un ratto di cui il Paese fu fortunato a sbarazzarsi, e io non autorizzo alcuna rilettura fascinosa di Hollywood di questo parassita. Questo tipo di mendacia romantica può solo portare i giovani più fuori strada di quanto non siano già, e non ne voglio fare parte”.

Il clan dei Barker

Titolo originale: Bloody Mama
Regia: Roger Corman
Sceneggiatura: Robert Thom
Fotografia: John A. Alonzo
Montaggio: Eve Newman
Scenografia: Michael Ross
Suono: Charles T. Knight
Musiche: Don Randi
Interpreti: Shelley Winters, Pat Hingle, Don Stroud, Diane Varsi, Bruce Dern, Clint Kimbrough, Robert De Niro, Robert Walden, Alex Nicol, Pamela Dunlap, Michael Fox, Scatman Crothers, Stacy Harris, Lisa Linsky, Steve Mitchell, Roy Idom, Frank Snell
Produzione: Roger Corman, Samuel Z. Arkoff, James H. Nicholson per American International Pictures (AIP)
Durata: 90 minuti
Prima proiezione: 24 marzo 1970

Sinossi:
Kate “Ma” Barker si dà al gangsterismo estremo assieme ai quattro figli: dopo aver mollato il marito, la ferale donna imbraccia il mitra, sale in macchina, rapina e sequestra persone cercando un riscatto impossibile nell’America a ridosso degli anni Trenta. I suoi figli edipicamente la amano e la temono, lei li adora e li tiranneggia con un atteggiamento ai limiti dell’incestuoso. In ogni caso il “clan” che hanno messo in piedi non può avere vita facile: la polizia è sulle loro tracce e loro non fanno nulla per evitare di lasciare una scia di sangue a ogni passo…

Roger Corman non stava attendendo l’arrivo di Gangster Story per saltare negli anni Trenta munito di pistole. Ma certamente il film di Penn fornisce nuovi orizzonti persino a lui, leggendario re del cinema indipendente, antesignano di Easy Rider con i suoi motorcycle movies e sostenitore di fulgidi talenti (Demme, Bogdanovich, Scorsese e ovviamente Hellman tra gli altri) cui ai tempi prestava le sue doti da produttore. Precursore, galassia/mondo a se stante nel cinema americano, Corman non stava aspettando Gangster Story per affondare a ridosso della Depressione visto che un paio di mesi prima del film con la coppia Beatty/Dunaway nelle sale Usa era arrivato il suo Il massacro di San Valentino (1967): Chicago, Al Capone, il proibizionismo e una nota strage erano gli ingredienti di questo noir d’antan. Ma con Il clan dei Barker (1969) Corman raccoglie tutta la furia e la violenza della seconda parte del film di Penn per portarle al parossismo ed estenderle a una famiglia criminale. Kate “Ma” Barker è una donna arrabbiatissima con un sistema che vorrebbe sottometterla e a cui si ribella, è il capo di un clan formato dai suoi quattro figli maschi ed è assetata di sangue (il titolo originale è Bloody Mama, in cui “bloody” sta sia per “sanguinaria” che per “maledetta”). Diavolo che non ha tema di mandare allo sbaraglio quei figli con cui ha un rapporto un po’ morboso (nella family troviamo anche un giovanissimo Robert De Niro, fragile figlio eroinomane), Kate “Ma” è interpretata da una Shelley Winters in forma strepitosa, con mitra a portata di mano e sguardo diabolico, pronta a scatenare un’orgia di proiettili. Sebbene Il clan dei Barker sia l’unico film diretto da Corman presente in questa retrospettiva, ritroviamo il suo multiforme ingegno anche come indispensabile supporter de La sparatoria e Le colline blu e come produttore di Cockfighter di Monte Hellman. Ritroviamo poi la casa di produzione con cui ha a lungo lavorato, l’American International Pictures, al timone di altri due titoli qui presenti ovvero Foxy Brown e soprattutto Dillinger di Milius, lavoro apparentato a Gangster Story per l’orizzonte storico-criminale e a Il clan dei Barker non solo per crudezza espressiva ma anche perché questo film di Corman fu prodotto dallo stesso regista sempre per l’Aip. Il film di Milius e il gioiello cormaniano sono due ottimi esempi per capire come le produzioni indipendenti e più laterali rispetto alle Major fossero in grado di prendere un titolo di successo, come il seminale film di Penn, cavalcandone ambientazioni e mitologie per (ri)portare al cinema il pubblico che lo aveva apprezzato e riscriverne l’elegante fattura in un linguaggio più sporco e brutale.