Sulla strada
La grande ondata chiamata “New Hollywood” o “Hollywood Renaissance” ha portato alla ribalta alcuni tra i registi più amati della storia del cinema come Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, Brian De Palma o Robert Altman. Eppure, a oltre 50 anni da Easy Rider e a 53 da Il Laureato,quella fenomenale stagione creativa rischia oggi di risultare un po’ confinata alla fama di alcuni grandi titolie di alcuni grandi autori, dimenticando molto e forse troppo di ciò che ha reso possibile quel rinnovamento. Vanno riscoperti i contributi delle produzioni indipendenti e dei registi che hanno fatto da apripista per temi e atmosfere, i primi passi di cineasti poi divenuti famosi o i film considerati minori che artisti importanti hanno realizzato sulla scia di un “genere” o di uno stile in auge. È l’obiettivo della rassegna Strade a doppia corsia – Itinerari della New Hollywood, che proporrà alcuni percorsi interni a questo vasto scenario per mostrare come anche i maggiori successi siano il frutto di un panorama eterogeneo e talvolta poco noto persino agli spettatori appassionati. Vale la pena invece di soffermarsi sull’ecosistema complesso che ha reso possibile la definizione di quello sguardo libero, inedito, autoriale che identifichiamo con la New Hollywood. Se questo è stato un momento esemplare, lo si deve infatti a tanti elementi: registi e sceneggiatori appassionati di cinema europeo che, orfani degli Studios della Hollywood classica, si sono cimentati a ridefinire contenuti e modelli produttivi; fautori geniali (un nome per tutti, Roger Corman) di film low budget capaci di intercettare i desideri del pubblico; l’enorme mole di titoli realizzati; la possibilità di mettere in scena situazioni precedentemente censurabili. Della New Hollywood spesso si crede di sapere tutto ma, come può accadere per i movimenti più riconosciuti, non solo non è vero ma si può anzi dire che a distanza di decenni se ne sappia sempre meno.
Strade a doppia corsia si sviluppa in tre sezioni, tra film famosi e altri poco frequentati, tra la seconda metà degli anni Sessanta e gli anni Settanta. La prima sezione è un omaggio a Monte Hellman, geniale cineasta e in seguito riferimento per molti registi più giovani (come Quentin Tarantino di cui è stato produttore esecutivo per il suo esordio, Le Iene, o Richard Linklater che considerava i suoi primi lavori autoprodotti tanto hellmaniani da inviarglieli in vhs). Di Hellman verranno proiettati i sei film che ha realizzato negli anni presi in considerazione, da La sparatoria (1966) al western italiano Amore, piombo e furore (1978). La seconda sezione vuole tracciare un percorso partendo da un titolo fondamentale per la storia del cinema americano, ovvero Gangster Story (1967) di Arthur Penn, per evidenziare come quest’opera abbia influenzato altri lavori immediatamente successivi dando anche il via a una tipologia di film ambientati durante la Grande Depressione. La terza sezione è dedicata alla rappresentazione della donna in quel periodo così innovativo ma molto incerto per quanto riguarda il ruolo del femminile, di cui si ravvisa soprattutto una profonda crisi identitaria. Nella scelta di queste tre sezioni si intende d’altro canto restituire un mood unitario: mostrando film conosciuti e gemme dimenticate, Strade a doppia corsia vuole infatti tracciare un percorso su una stagione americana che, forse più di ogni altra, riesce a mettere a fuoco le caratteristiche per cui nella seconda metà del Novecento gli Stati Uniti sono stati identificati come una terra di utopie, di contraddittorie pulsioni, di anarchiche rivolte, ciniche disillusioni, libertà espressive ed esistenziali. La rassegna disegna un itinerario di attraversamento degli Usa che ha radici storiche e riferimenti culturali chiari.
Il Secondo Dopoguerra americano è segnato politicamente dalle riforme volute da Franklin Delano Roosvelt e poeticamente dalla Beat Generation. Due elementi che apparentemente hanno poco a che vedere l’uno con l’altro ma che invece circoscrivono i confini di una strada che può condurre il Paese a sperimentare forme di vita inedite così come a a cantare “l’individuo, la singola persona, e al tempo stesso la democrazia, la massa”, per dirla con Walt Whitman (Io canto l’Individuo). Terminati gli anni Cinquanta del maccartismo e degli “happy days”, una generazione di registi nati durante la Grande Depressione o durante la Guerra ha la possibilità come mai prima di allora e come mai, probabilmente, neppure dopo, di mappare il proprio Paese, producendo e realizzando un cinema che risente positivamente del vuoto della classicità, degli orizzonti on the road di Kerouac, ma anche di una diffusa classe borghese da cui evadere o con cui confrontarsi. Non a caso sono molti, in questa retrospettiva, i travel movies, film di viaggio in cui le automobili perlustrano gli spazi di un Paese che non ha remore a mostrarsi e riflettersi. Sono molti anche i personaggi in fuga, le donne smarrite, gli outsider e i fuorilegge che forzano i limiti cercando qualcosa che non hanno e non troveranno. Proprio come in Kerouac, anche in molti lavori cinematografici di questi anni si riscontrano malinconia e depressione di fronte all’esito di un errare che non porta dove si sperava o conduce a uno smarrimento totale che appaga tutt’al più il desiderio di spogliarsi di qualunque ruolo sociale. Questa operazione di attraversamento e mappatura dello spazio esterno e interno è figlia di quei tempi americani, figlia anche della fiducia e delle possibilità che il Dopoguerra aveva generato nella classe media. Divenendo ben presto una consapevole modalità narrativa, sfruttabile e commercializzabile per portare in sala adolescenti e giovani, questo racconto della perdita non avrà più lo stesso piglio dolente eppure sfrontato, foriero più di interrogativi che altro, di alcuni film di questa retrospettiva. A cavallo tra i due Decenni e con la guerra del Vietnam in corso, l’America si misura invece sulle sue highway percorse da persone fuori dagli schemi o da fantasmi che tornano per viaggiare nel presente. Anche per questo un film ambientato all’inizio degli anni Trenta come Gangster Story ebbe, nel 1967, un ottimo riscontro al botteghino e venne emulato a vario titolo diventando una pietra miliare persino per chi voleva “contestarlo”. Sullo schermo tanti personaggi si muovono a perlustrare quel che si agita in quell’enorme spazio ignoto, una terra perennemente di frontiera e che tale in fondo resterà fino all’11 settembre 2001, una data che cambierà drasticamente la percezione interna degli Stati Uniti, dunque una data destinata a riflettersi inevitabilmente nella successiva rappresentazione cinematografica del Paese.
Anche tra il 1966 e la fine degli anni Settanta cambiano molte cose. Restando su una sezione di Strade a doppia corsia,cambia moltissimo ad esempio la rappresentazione del femminile: enorme è la differenza che intercorre tra la Natalie di Non torno a casa stasera (1969) di Coppola o la Wanda nell’omonimo film di Barbara Loden (1970) e la Joanna Kramer interpretata da Meryl Streep in Kramer contro Kramer (1979), film da Oscar diretto proprio dallo sceneggiatore di Gangster Story, Robert Benton, che era rimasto tanto affascinato da Bonnie Parker. Il tema della casalinga che scappa mollando prole e marito è ricorrente nel cinema di quegli anni e lo è moltissimo nei film per la tv che i grandi broadcast producevano pensando alle esigenze del pubblico (prevalentemente femminile). In dieci anni il modello è però così mutato che, laddove le donne dapprima si smarcano dalla famiglia senza capire esattamente cosa vogliono fare, l’ex signora Kramer se ne va e si rifà una vita in un film che spesso viene considerato un perfetto esempio di lacrima movie ma che invece ripensato all’interno di un percorso tematico assume un’altra valenza, come se fosse l’approdo di un lungo viaggio. Questa retrospettiva si ferma prima, nel mezzo della crisi, nel racconto di fughe disorientate più consone al clima generale delineato dai 18 film che sono, appunto, opere di transito, di passaggio tra mondi, di viaggi in attesa di definizione. È un’America in cui vengono privilegiate le brusche decisioni di mettersi al volante e le pulsioni anomiche, figlia di Thoreau e Whitman ma filtrata dagli scrittori e dai poeti Beat: forse l’America delle possibilità, delle forme incerte, dei tragitti senza meta che ha segnato maggiormente l’immaginario di milioni di cinefili in tutto il mondo e che ha, d’altro canto, illuminato di speranza decine di intellettuali europei. Per quella ricerca “di un nuovo valore morale, di una nuova ragione del mondo, di una nuova spiegazione della vita”, come scrisse Fernanda Pivano nella prefazione della prima edizione italiana (1958) di Sulla Strada di Jack Kerouac: questa tensione è ancora alla base di molta narrazione filmica che, scendendo da cavallo e salendo sopra un’auto, risente di un clima diffuso già nell’immediato Dopoguerra e rafforzatosi negli anni Sessanta. Se invece si vuole un altro proscenio di raffronto, in questi film potremmo tranquillamente trovarci davanti a un giovane di Duluth che parte da casa, in Minnesota, per andare nel New Jersey a trovare un genio errante e ribelle nel suo letto d’ospedale. Gli anni di Kerouac e Woody Guthrie diventano quelli di Dylan, Schatzberg e Hellman, dell’omicidio Kennedy e di Luther King, della guerra in Vietnam e delle proteste universitarie, delle lotte per i diritti civili e del femminismo. Di registi smanianti di trovare la propria voce, che guardano al cinema europeo e lo riportano a una dimensione squisitamente americana, pronti anche a stonare per raccontare diversamente, reinventando il cinema.